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L’ “ocaporto-Ocamondo” di Simone Artico

di Alessio Alessandrini

(in occasione realizzazione dei  piatti per la fiera dell’oca 2009)

La conversazione con i civili di sedile in aereo è un ‘arte perché non si sa mai quali possano essere gli interessi del vicino. Quello mio era interessato alla gastronomia. Saputo che ero di Portogruaro, per meglio circostanziare

il luogo mi chiese quale si possa considerare il nostro piatto più tipico. Faccio un rapido e un po’ disperato esame di coscienza e poi rispondo non molto convinto che è il bisato in umido.

Quando torno a casa mi resta il piccolo rimorso di non essere stato preciso sulle tradizioni culinarie del mio paese, ed allora interpello un maestro del settore come Gian Piero Rorato. Non è del tutto sbagliato, mi rassicura, però la risposta più giusta sarebbe stata l’oca! Accidenti, avrei dovuto saperlo. Non c’è la fiera delle oche e degli stivali?

Bene. In questi piatti di Simone Artico, giovane e molto promettente pittore delle nostre parti (nato a Portogruaro, classe 1972, abita a Lison e fa il postino), questa intimità tra Portogruaro e l’oca diventa proprio tattile, sensibile, a tratti sensuale e non di rado poetica.

La bianca figura dell’oca abbinata spesso con dolci fanciulle, da una parte rimanda ad una dimensione mitica, che é quella appena suggerita con pudica discrezione di Leda e il cigno; dall’altra richiama alla memoria l’epopea delle ragazze di famiglia contadina che andavano per i campi a “passon coe oche”, sole solette, miraggio e tentazione del pur pio bifolco. Ma dei 19 piatti proposti ce ne sono anche un paio che affrontano il tema sacro, ed eccoci dunque davanti alla Madonna dell’oca, dolcissima, con l’animale che viene a salutare il Bambin Gesù al posto delle tradizionali pecore del presepio. Ed in effetti, fosse nato dalle nostre parti il Bambin Gesù, proprio le oche probabilmente, e non le pecore, sarebbero andate ad onorarlo.

In altri momenti l’oca é testimone degli scorci più tipici della città: davanti ai Molini, alla torre di sant’Agnese, al Municipio (in questo caso all’oca non si vedono le zampe e dunque non si capisce se sia zoppa o meno…) in composizioni prospettiche sempre suggestive ed ardite.

Non é un vero e proprio realismo quello di Simone artico, e bisogna dire che in questi piatti non é venuto meno allo stile maturato anche nei suoi quadri, fatto di buona propensione al disegno sposata ad un cromatismo personale e caratteristico, che fa largo ricorso alla spatola. Ne esce un uso sfrangiato del colore che accenna ai volumi per subito alleggerirli in un’aura di sogno. Direi tra Matisse e Chagall se é lecito usare questi maestri a puro scopo esemplificativo.

C’è uno di questi piatti, per tornare ai soggetti scelti, che andrebbe bene per essere inviato nello spazio a testimoniare, qualora qualche altra creatura vivente un giorno lo possa vedere, la nostra umanità. Per questo dico non solo “ocaporto” ma anche “ocamondo”. Un uomo e una donna hanno un’oca in braccio, e sullo sfondo svetta il campanile di Portogruaro come un missile puntato verso il cielo. Tutta la composizione pare una metafora della Genesi: Adamo ed Eva con gli animali creati a loro sostentamento. Archetipa. Primordiale.

E decisamente un approccio diverso quello di quest’anno con la tradizionale tematica della fiera, tanto che gli stivali si fanno decisamente da parte.

Circola un pathos particolare, che non si ritrova nei piatti delle scorse edizioni. Un’atmosfera sospesa.Qualcosa di non definito. Una serie di intuizioni, accennate, che certo rimandano al soggetto commissionato, ma non si risolvono in esso. Come per i pittori del Rinascimento, che dipingevano Santi e Madonne per chiese e conventi, ma che attraverso quelle figure, assolutamente rispettose della funzione per cui erano state dipinte, riuscivano anche a comunicare i sentimenti e i voli che stavano loro a cuore nel segreto di personali fantasie, così Simone Artico cavalca il compito affidatogli restituendoci però anche qualcosa di più, che ha a che fare con i non sempre sondabili sentieri dell’arte. Si veda il motivo firma della “vespa” come moto che ci ha voluto mettere dentro…

Il pittore ha i suoi quadri esposti alla galleria Farsiarte davanti al duomo di Portogruaro. Insista con le sue figurazioni ma non intendiamo dargli consigli perché, come giustamente lui stesso avverte nel suo sito internet: “l’arte è come l’amore, non ha bisogno di consigli, semplicemente esiste e già questo è straordinario”.

 

 

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La cifra che contraddistingue in modo piuttosto evidente la pittura di Artico sembra essere quella della dimensione domestica. Sono dipinti che parlano di “cane e di gatto, di me e di te”, proprio come si legge nel titolo alla mostra che inaugura a Pordenone il 14 maggio alle 18,30, al Caffè Letterario di Piazza della Motta. 

Nella locandina, una donna con la mano ad accarezzarsi la guancia, che fissa stanca e occhiaiuta un “obiettivo” fotografico che è poi l’occhio del pittore, e il gatto a guardare altrove, nella sua indifferenza tipicamente animalesca. Ma soprattutto, colori che non corrispondono al reale. Lo sfondo giallo oro sembra essere invaso dal bluvioletto dei soggetti rappresentati, in un richiamo picassiano in cui però i diversi livelli delle pennellate si sovrappongono l’uno sull’altro quasi a volersi combattere. Il risultato è un appiattimento tra lo sfondo e i due soggetti, mentre all’interno dello stesso livello di colore sono presenti innumerevoli sfumature che rendono il soggetto tutt’altro che piatto.

È il volto della donna dallo sguardo stanco, è il gatto che le sta di fronte in una naturalissima posa familiare a dare la dimensione domestica cui si accennava prima.

Il soggetto femminile ritorna continuamente nella pittura di Artico, in una situazione mista di etereo e di familiare. Sembra essere la stessa donna quella che apre le sue braccia, nuda, azzurrata su sfondo blu, sembra librarsi verso un indefinito spazio-tempo, noncurante della propria nudità, che anzi è sinonimo di purezza nella posa leggera e sognante. E infatti il titolo del dipinto è Umana divinità, in cui l’umano è decisamente carnale e il divino decisamente puro.

Ma l’umanità così familiare alle rappresentazioni artistiche di Artico ritorna decisamente nell’immagine di una Elodie Lotto, una donna che guarda altrove seduta a gambe incrociate, in cui le pennellate di sfondo rendono la donna quasi portatrice di luce propria, mentre la familiarità di un calzino a righe e di una felpa portata sulle gambe nude la rendono vicina all’occhio dell’artista ma anche a quello dello spettatore, che entra in una dimensione intima con il soggetto: è come se si potessero leggere i suoi pensieri, perché sono gli stessi di una donna qualunque che guarda altrove vestita casual. La profondità dei pensieri è però data soprattutto dal volto, che si staglia scuro sullo sfondo di luce, e non nasconde la propria inquietudine, come se non si accorgesse di essere l’oggetto di un quadro, come in un’istantanea. Ed è la stessa naturalezza da fotografia istantanea quella che contraddistingue anche il dipinto Deposizione, che insieme a Umana divinità fa parte di una serie, “Cristo-donna”. In Deposizione il sonno è uno stato di morte apparente, dove ancora una volta i colori giocano un ruolo importante, con il blu che domina i contorni e il volto della donna a contrapporsi al giallo del baldacchino. Un letto di morte o un sonno profondo? Il limite tra i due stati è estremamente labile, e Artico lo dimostra chiaramente.

Infine, un corvo in via decomposizione. Anch’esso caratterizzato prettamente da pennellate bianche e nere su uno sfondo chiaro, rappresenta ciò che l’artista chiama Materia. Materia immateriale? Materia che si fonde con la Natura, della quale il soggetto ritratto è parte integrante? Materia che si smaterializza nel volo di un animale in punto di morte? Allo spettatore l’ardua risposta. In fondo, l’arte contemporanea non vuole imporre una visione, ma dialogare con il pubblico. E sembra che le opere di Artico vogliano parlare. Sta a voi rispondere.

 

Anna Castellari

 

 

 

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